lunedì 29 agosto 2011

Incontri folgoranti

Quanto mi piacciono le biblioteche. In genere sono i luoghi dove si incontrano i personaggi più interessanti, dove si intavolano discorsi leggeri ma profondi, dove non ci si rivolge quasi mai all'altro in modo presuntuoso. Sì, perché il popolo dei libri è sempre gentile, accorto, affabile (salvo eccezioni, ovviamente). E' quasi impossibile andare via dai quei posti senza aver ricevuto una parola o un gesto di premura. Figuriamoci nei piccoli centri, figuriamoci nella biblioteca dove tutti mi hanno vista crescere. Andarci è sempre un grande piacere.
Oggi ho avuto un incontro straordinario. Mentre mi stavo intrattenendo con i bibliotecari, è entrato in silenzio un piccolo signore piuttosto anziano. Era venuto a prendere il vocabolario del dialetto locale. La direttrice della biblioteca ce l'ha presentato come un appassionato studioso di linguistica. Io e il bibliotecario giovane abbiamo passato la mezzora successiva incantati ad ascoltare questo brillante giovanotto che ci parlava di lingue mutate, influenzate, stravolte dall'incontro con le altre. Per ogni parola faceva degli esempi dal greco, dal latino, dal sanscrito, passando poi per le lingue attuali, soprattutto slave e anglosassoni.
La cosa più straordinaria è stato scoprire che non mi trovavo di fronte ad un illustre linguista ma ad un insegnante elementare. Inevitabile pensare con una punta di rammarico alla scuola di un tempo. E a quella più recente, a cominciare da quella in cui io mi sono formata.
Sulla via di casa l'ho incontrato e salutato. Lui mi guarda e sorridendomi mi dice: "lei è la signorina della biblioteca! Devo porle le mie scuse per il tempo che mi sono trattenuto lì con voi". Io, naturalmente, sono esplosa in un "ma è stato incantevole. L'avremmo ascoltata per ore". Di fronte al mio entusiasmo si è messo a parlare ancora di vocaboli mutati dal latino, di dissertazioni con lo studioso a cui è dedicata la biblioteca e persino della sua vita. "Sa, sono diventato insegnante nel dopoguerra. Mi sono trasferito a Napoli con sommo dispiacere dei miei genitori, i quali avrebbero voluto avermi qui con loro". Ha fatto una pausa di silenzio, quasi come se avesse deciso di andare via il giorno precedente e non tanti tanti decenni fa. Poi si è ripreso e mi ha fatto una confidenza: "in questo momento studio il dialetto locale perché credo che possa rintracciarvi cose interessanti per la nostra lingua". Indicandomi il portone di casa, con una voce molto galante mi dice: "io abito qui, se vuole accomodarsi per un caffè". Meraviglioso!
Una volta a casa, ho pensato a lungo a quella passione colta nei suoi occhi, a quel suo garbato desiderio di comunicarla. Che voglia sconfinata di rubargliela. Io che posseggo l'età e i mezzi per agevolare la crescita intellettuale, mi perdo nei mille rivoli della distrazione. Io e tutti gli pseudo umanisti della mia generazione abbiamo la terribile malattia di "dover fare in fretta", di mangiare nel piatto di quel sapere e di quell'altro ancora, senza nutrirci adeguatamente. Noi che abbiamo tutto il tempo per poter approfondire, finiamo per avere rapporti frugali con le nostre passioni. E spesse volte non riusciamo nemmeno a raccontare e a raccontarci perbene.

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