martedì 30 luglio 2013

At the mall

E' stato amore a prima vista tra di noi. Di quegli amori che ti fanno girare e rigirare nel letto pensando a quando e come sarà possibile rivedersi per scegliersi per sempre. L'avevo scorta in mezzo a tante e più appariscenti colleghe, lei così riservata, così minuta, con quel suo colore timido. Non potevo lasciarla lì dov'era, dovevo assolutamente prenderla e portarla nel mio mondo affinché potesse divenire una degna accompagnatrice per quei momenti della vita dal sapore conturbante. 
E così ho deciso di sfidare il timore di perdermi su un autobus con fermate dai caratteri incomprensibili per correre da lei, da quella giacca color nocciola che si trovava rinchiusa in un negozio dell'Har'el Mall Center Pharm di Mevaseret. Lei doveva essere mia, avrei costeggiato anche la striscia di Gaza pur di averla. 
Se c'è una cosa che mi spinge ad andare oltre quell'Io pavido che posseggo è lo shopping! A ciascuno le proprie medicine: a me corteggiare i vestiti, soprattutto se questi sono in saldo. 
La passione per la giacca si è sgonfiata una volta giunta a casa, mentre gli occhi si sono riempiti di un popolo tanto variopinto e il cuore di tanti atti di gentilezza. 
Alla fermata sotto casa ho chiesto ad un signore se quello fosse l'autobus giusto per giungere al centro commerciale. L'uomo, probabilmente un arabo, mi ha risposto in un inglese stentato e si è offerto di indicarmela una volta giunti in prossimità. Mentre aspettavamo mi ha chiesto se LA MIA LINGUA FOSSE L'INGLESE!!! Attimo di gioia infinita, durato fino a quando ho dovuto confidare di essere madrelingua italiana. Quando rivelo la mia nazionalità la maggior parte ostenta indifferenza, solo qualche maschietto più baldanzoso ha osato dirmi una parolina in italiano (tipo: ciao bella). In un panificio gestito da arabi, il tizio che ci ha servito ha pensato di fare il simpatico dicendo: "Italia bunga bunga". Io e Stefano abbiamo risposto con un sorriso abbozzato. Per fortuna al resto della popolazione residente sul suolo israeliano interessa ben poco delle mie folcloristiche radici, a dimostrazione di quanto siamo poco allettanti (anche in negativo) fuori dall'Europa.
Al ritorno ho chiesto indicazioni ad una ragazzina, la quale dapprima si è intimorita nel rispondermi ma poi, vinta dal desiderio di aiutarmi, ha cercato sul suo iphone la traduzione in inglese per me. Ho scorto sul display quel "I check for you" che mi ha scaldato il cuore. Allora io ho cercato sul mio cellulare la traduzione in ebraico di "è già passato il 186?" che lei non riusciva a capire. Ho trovato quanto siano utili a volte le tecnologie per avvicinare quelle persone timide nel comunicare in una lingua terza. Un tempo c'era i gesti, oggi ci sono i gesti e il traduttore di Google. 
In mio soccorso è arrivata anche una soldatessa, che aveva appena smontato dal servizio militare. Anch'ella si è prima scusata di non parlare bene inglese e poi si è prodigata nell'assistermi. Era bellissima, con uno sguardo felino, i lunghi capelli neri, le mani ben curate e quella brutta divisa del servizio militare. Mentre aspettavamo ne sono arrivate altre, tutte altrettanto giovanissime. Sto cominciando ad abituarmi alla presenza dei metal detector, ai controlli della borsa, ai tanti soldatini piantonati ovunque. Tutto diventa normale, persino i giubbotti antiproiettile, le armi da fuoco e le militari giovanissime. 
Con la soldatessa ho commentato il costume israeliano di fare l'autostop, soprattutto in corrispondenza delle fermate dell'autobus. Ragazzi, adulti e persino donne alzano il braccio per avere un passaggio da uno sconosciuto, a qualsiasi ora e senza nessuna remora. Sarà forse perché sono italiana, ma francamente entrare o far entrare in macchina chi non conosci lo reputo...pericoloso. Chissà se questa è un'abitudine che gli israeliani hanno avuto in eredità dalle loro radici medio-orietali. Poiché non mi sembra che nel resto d'Europa lo si faccia con così tanta frequenza e sicurezza, deduco che non siano stati gli ebrei europei emigrati nella terra promessa ad importarla. 
Nell'attesa del 186 sono passati sotto il mio occhio curioso le sfumature di questo popolo. A parte le musulmane facilmente riconoscibili dal velo, è con gli ebrei che mi diverto a memorizzare le loro differenze in fatto di vestiti e di acconciature. Alcune ebree portano delle gonne nere lunghe fino a sotto al ginocchio o alla caviglia (mi ricordano molto le zingare) e dei fazzoletti sulla testa. Le etiopi in particolare vestono soprattutto con gonne lunghe, in prevalenza scure.
Ci sono uomini con cappelli e vestiti che a me ricordano troppo i personaggi di "La casa nella prateria". Sarà per via di un abbigliamento dal taglio e dal tessuto non proprio moderno, sarà per quel modo particolare di portare la barba, ma a me sembra che provengano tutti dalla America del Nord tardo ottocentesca. 
Poi ci sono quelli con il ricciolo, il cappello largo, il vestito nero e la camicia bianca. Quelli, insomma, conosciuti anche in Italia. Infine, quelli più "normali" (mi scusino gli ebrei se uso questo aggettivo, ma devono capire che il mio è sempre un punto di vista abituato ad altri costumi) con la kippah, molto usata anche tra i bambini. 
Vorrei fotografarli tutti, perché li trovo proprio belli. Credo di avere sviluppato, se non una passione, una simpatia per il mondo ebraico. Mi interessa, mi coinvolge, mi incuriosisce. Persino la lingua mi intriga, peccato non avere il tempo per frequentare un corso completo di primi rudimenti. De gustibus. Ho capito che questa cultura mi affascina molto, ma molto di più rispetto a quella islamica. Attenzione, con queste dichiarazioni non ho l'intenzione di prendere alcuna posizione storico-politica, giacché non ho le competenze né la voglia per farlo. Voglio soltanto dichiarare una curiosità intellettuale a scapito di un'altra.
Faccio, al contrario, una dichiarazione precisa, diretta: i centri commerciali in Italia e in Europa sono oltremodo noiosi. Hanno sì una varietà di vestiti migliori, sia per qualità che per stile, ma sono pregni di gente più o meno tutta uguale: sono multiculturali in modo standardizzato. E dunque finiscono per essere privi di attrattiva per chi come me passerebbe ore intere ad osservare la vita dell'altro. 

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