Fin da piccola ho sognato di insegnare. Alle elementari, il pomeriggio dopo aver finito i compiti, allineavo tutti i giocattoli di forma umana (a cui avevo dato un nome e una connotazione caratteriale ben definita, a volte anche familiare) e insegnavo loro tutto ciò che avevo appreso in classe la mattina. Poiché la mia era una scuola vecchio stampo, con interrogazioni e voti, riproducevo il medesimo schema a casa: avevo il registro sul quale annotavo i risultati e una lavagnetta al cospetto della quale i miei alunni dovevano dimostrare di aver appreso gli insegnamenti. Giacché ero anche una bambina pregna di storie, inventavo il post scuola con i ragazzi che si fidanzavano tra di loro o le difficoltà con i genitori.
Nella vita irreale insegno varie cose in momenti discontinui, in quella reale, cioè di stallo occupazionale tipicamente made in Italy, penso a cosa vorrei realmente donare ai miei ragazzi: insomma leggo, studio, approfondisco sempre a titolo personale e gratuito.
In questi giorni mi ronza una frase che mi piacerebbe usare in una lezione di filosofia al liceo (nel mondo irreale mi piacerebbe insegnare storia e filosofia; nel mondo reale non c'è spazio nemmeno per pensarla un'assurdità del genere); sono le parole che danno l'avvio alla Metafisica di Aristotele:
"Tutti gli uomini tendono per natura al sapere".
Vale a dire che tutti gli uomini non solo posseggono il desiderio di ricerca, di conoscenza, di sapienza, ma possono conseguirlo. Inseguire, amare, allattare il proprio sapere e poi metterlo al servizio di se stessi e della comunità: questo vorrei scolpire nel cuore degli adolescenti, questo vorrei scolpire innanzitutto nel mio di cuore. Forse per questa ragione vago per la mia minuscola camera cercando il modo di ingabbiare quelle parole. Devo scriverli i pensieri per non perderli: ho questo bisogno spasmodico di cementarli.
Mi sono appuntata la frase su un foglietto e l'ho appiccicata al muro. Tuttavia mi piacerebbe scriverlo bello visibile sull'armadio, come feci da ragazzina quando sentii l'impulso di scrivere "da qualunque parte tu venga, tu non sei un estraneo" con un pennarello indelebile. Crescendo ho provato a cancellarlo, ma è lì che ancora si vede. Ringrazio i miei genitori per non essersi arrabbiati per aver imbrattato un mobile, forse avevano capito che in quella frase di Primo Levi c'era in nuce una tendenza, anzi due, del mio carattere: quella a non considerare l'altro straniero e quella di dovermi esprimere attraverso le parole degli altri. Quelle stesse parole che, a mio parere, non andrebbero serbate dentro di sé, ma dovrebbero essere donate affinché producano molto frutto anche negli altri.
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