lunedì 18 novembre 2013

Ciao, Doris.

Ho letto Alfred e Emily nell'estate 2011, in quell'estate di cambiamenti inaspettati (e quindi) travolgenti.
Oggi, mentre commemoro la scomparsa di Doris Lessing, scopro che era nata a Kermanshah. Ai più il nome di questa cittadina non dice nulla, a me racconta di un periodo intenso - emotivamente intenso, di un affetto divenuto amore, di attese e di speranze. Mi racconta di quel viaggio che ci divideva e al contempo ci univa, di quel viaggio che tutt'oggi mi commuove.
Doris - la chiamo per nome come si fa in genere con le scrittrici (mai con gli scrittori), giacché le senti più vicine, più intime, più simili a te - mi era tornata in mente dopo l'assegnazione del premio nobel alla Munro, tanto che Il taccuino d'oro era balzato prepotente in cima ai desideri di evasione. Ci sono momenti della mia fragile esistenza che necessitano dei libri per dare conforto e sostengo ai gesti o alle scelte. E  questo romanzo mi era sembrato giusto per un presente di confusione. Non so perché. So solo che lo volevo al mio fianco.
Oggi desidero una parola qualsiasi di Doris, di quella ragazza europea nata a Kermanshah in Persia. Una qualsiasi.



Possiamo abituarci a qualsiasi cosa; va bene, è un luogo comune, ma forse bisogna viverle, certe esperienze, per coglierne fino in fondo l'orribile verità.
Da Memorie di una sopravvissuta

mercoledì 31 luglio 2013

Io sto Cécile

Un mirabile Erri De Luca in un tweet scritto per la ministra Kienge, ma che è per tutti noi. Non solo leghisti.

A Cecile K: non vada al raduno di chi odia la sua pelle, i loro visi pallidi trasudano un decolorante scaduto, sono meticci e non lo sanno.




Quanto sei piccola, mia Italia.

martedì 30 luglio 2013

At the mall

E' stato amore a prima vista tra di noi. Di quegli amori che ti fanno girare e rigirare nel letto pensando a quando e come sarà possibile rivedersi per scegliersi per sempre. L'avevo scorta in mezzo a tante e più appariscenti colleghe, lei così riservata, così minuta, con quel suo colore timido. Non potevo lasciarla lì dov'era, dovevo assolutamente prenderla e portarla nel mio mondo affinché potesse divenire una degna accompagnatrice per quei momenti della vita dal sapore conturbante. 
E così ho deciso di sfidare il timore di perdermi su un autobus con fermate dai caratteri incomprensibili per correre da lei, da quella giacca color nocciola che si trovava rinchiusa in un negozio dell'Har'el Mall Center Pharm di Mevaseret. Lei doveva essere mia, avrei costeggiato anche la striscia di Gaza pur di averla. 
Se c'è una cosa che mi spinge ad andare oltre quell'Io pavido che posseggo è lo shopping! A ciascuno le proprie medicine: a me corteggiare i vestiti, soprattutto se questi sono in saldo. 
La passione per la giacca si è sgonfiata una volta giunta a casa, mentre gli occhi si sono riempiti di un popolo tanto variopinto e il cuore di tanti atti di gentilezza. 
Alla fermata sotto casa ho chiesto ad un signore se quello fosse l'autobus giusto per giungere al centro commerciale. L'uomo, probabilmente un arabo, mi ha risposto in un inglese stentato e si è offerto di indicarmela una volta giunti in prossimità. Mentre aspettavamo mi ha chiesto se LA MIA LINGUA FOSSE L'INGLESE!!! Attimo di gioia infinita, durato fino a quando ho dovuto confidare di essere madrelingua italiana. Quando rivelo la mia nazionalità la maggior parte ostenta indifferenza, solo qualche maschietto più baldanzoso ha osato dirmi una parolina in italiano (tipo: ciao bella). In un panificio gestito da arabi, il tizio che ci ha servito ha pensato di fare il simpatico dicendo: "Italia bunga bunga". Io e Stefano abbiamo risposto con un sorriso abbozzato. Per fortuna al resto della popolazione residente sul suolo israeliano interessa ben poco delle mie folcloristiche radici, a dimostrazione di quanto siamo poco allettanti (anche in negativo) fuori dall'Europa.
Al ritorno ho chiesto indicazioni ad una ragazzina, la quale dapprima si è intimorita nel rispondermi ma poi, vinta dal desiderio di aiutarmi, ha cercato sul suo iphone la traduzione in inglese per me. Ho scorto sul display quel "I check for you" che mi ha scaldato il cuore. Allora io ho cercato sul mio cellulare la traduzione in ebraico di "è già passato il 186?" che lei non riusciva a capire. Ho trovato quanto siano utili a volte le tecnologie per avvicinare quelle persone timide nel comunicare in una lingua terza. Un tempo c'era i gesti, oggi ci sono i gesti e il traduttore di Google. 
In mio soccorso è arrivata anche una soldatessa, che aveva appena smontato dal servizio militare. Anch'ella si è prima scusata di non parlare bene inglese e poi si è prodigata nell'assistermi. Era bellissima, con uno sguardo felino, i lunghi capelli neri, le mani ben curate e quella brutta divisa del servizio militare. Mentre aspettavamo ne sono arrivate altre, tutte altrettanto giovanissime. Sto cominciando ad abituarmi alla presenza dei metal detector, ai controlli della borsa, ai tanti soldatini piantonati ovunque. Tutto diventa normale, persino i giubbotti antiproiettile, le armi da fuoco e le militari giovanissime. 
Con la soldatessa ho commentato il costume israeliano di fare l'autostop, soprattutto in corrispondenza delle fermate dell'autobus. Ragazzi, adulti e persino donne alzano il braccio per avere un passaggio da uno sconosciuto, a qualsiasi ora e senza nessuna remora. Sarà forse perché sono italiana, ma francamente entrare o far entrare in macchina chi non conosci lo reputo...pericoloso. Chissà se questa è un'abitudine che gli israeliani hanno avuto in eredità dalle loro radici medio-orietali. Poiché non mi sembra che nel resto d'Europa lo si faccia con così tanta frequenza e sicurezza, deduco che non siano stati gli ebrei europei emigrati nella terra promessa ad importarla. 
Nell'attesa del 186 sono passati sotto il mio occhio curioso le sfumature di questo popolo. A parte le musulmane facilmente riconoscibili dal velo, è con gli ebrei che mi diverto a memorizzare le loro differenze in fatto di vestiti e di acconciature. Alcune ebree portano delle gonne nere lunghe fino a sotto al ginocchio o alla caviglia (mi ricordano molto le zingare) e dei fazzoletti sulla testa. Le etiopi in particolare vestono soprattutto con gonne lunghe, in prevalenza scure.
Ci sono uomini con cappelli e vestiti che a me ricordano troppo i personaggi di "La casa nella prateria". Sarà per via di un abbigliamento dal taglio e dal tessuto non proprio moderno, sarà per quel modo particolare di portare la barba, ma a me sembra che provengano tutti dalla America del Nord tardo ottocentesca. 
Poi ci sono quelli con il ricciolo, il cappello largo, il vestito nero e la camicia bianca. Quelli, insomma, conosciuti anche in Italia. Infine, quelli più "normali" (mi scusino gli ebrei se uso questo aggettivo, ma devono capire che il mio è sempre un punto di vista abituato ad altri costumi) con la kippah, molto usata anche tra i bambini. 
Vorrei fotografarli tutti, perché li trovo proprio belli. Credo di avere sviluppato, se non una passione, una simpatia per il mondo ebraico. Mi interessa, mi coinvolge, mi incuriosisce. Persino la lingua mi intriga, peccato non avere il tempo per frequentare un corso completo di primi rudimenti. De gustibus. Ho capito che questa cultura mi affascina molto, ma molto di più rispetto a quella islamica. Attenzione, con queste dichiarazioni non ho l'intenzione di prendere alcuna posizione storico-politica, giacché non ho le competenze né la voglia per farlo. Voglio soltanto dichiarare una curiosità intellettuale a scapito di un'altra.
Faccio, al contrario, una dichiarazione precisa, diretta: i centri commerciali in Italia e in Europa sono oltremodo noiosi. Hanno sì una varietà di vestiti migliori, sia per qualità che per stile, ma sono pregni di gente più o meno tutta uguale: sono multiculturali in modo standardizzato. E dunque finiscono per essere privi di attrattiva per chi come me passerebbe ore intere ad osservare la vita dell'altro. 

domenica 28 luglio 2013

Primo Shabbat di mare

Finalmente è arrivato il primo bagno in mare targato 2013. Quest'anno ci siamo battezzati nelle acque calde e mondane del Mediterraneo israeliano, per la precisione in quelle glamour di Tel Aviv. 
Dopo aver visitato Gerusalemme, non potevamo non dedicare il nostro secondo Shabbat alla visita della capitale economica del Paese, considerata la Miami del Middle East per le spiagge bianche, pullulanti di gente in formissima e circondate da enormi palazzi. 
Avevo stabilito che come prima tappa saremmo dovuti andare nell'antico quartiere di Jaffa, unico sito proveniente dal mondo antico in una città nata - come me - nel '900. Come al solito ho le idee, ma manco di organizzazione. Così ci siamo messi in macchina guidati dalla mia convinzione che il posto fosse a nord di Tel Aviv. Ebbene, si è verificato esattamente quello che accade ogni volta che sono convinta di una cosa: è l'esatto contrario. Sicché dopo aver girovagato lungo le superstrade che circondano la città cercando di trovare un cartello con la scritta della nostra destinazione, Stefano ha suggerito pacatamente di usare il navigatore del mio cellulare. Chi ha la straordinaria capacità di indicare la svolta sbagliata anche quando è ben visibile sullo schermo? Io, naturalmente. Non so come si chiami questo deficit di orientamento, ma forse dovrei provare a sanarlo. Giuro che a piedi ricordo tutto e mi so muovere senza problemi, in macchina o con l'ausilio di strumenti elettronici proprio no. 
Ad un certo punto leggo sul display: tra 300 metri svoltare Gaza. Gaza??? "Stefano, stiamo andando a GAZA!". Per la prima volta ho visto gli occhi dell'ingegnere spalancarsi di terrore. Diciamo che il nostro spirito di conoscenza è alquanto latitante in Israele, cerchiamo di andare solo in posti quasi sicuri, diffidiamo di luoghi e di persone, ci lasciamo facilmente suggestionare da tutto ciò che potrebbe far pensare alla parola "attentato". Se persino a Gerusalemme non eravamo così tranquilli, figuriamoci andando in direzione di Gaza. 
A quel punto l'ingegnere ha preso in mano la situazione occupandosi lui stesso del navigatore. Peccato che arrivati a Jaffa ha pensato bene che fosse troppo araba (e quindi insicura) per i suoi gusti, proibendomi di scendere dalla macchina per cercare la piazza con l'orologio o l'antico porto. Addio, pertanto, gita culturale; lo Shabbat doveva essere passato in tutto e per tutto sulle mondane spiagge telaviviane. 



















Due note sui costumi locali: 
1) gli uomini sono tutti in forma e depilati. Lungomare ci sono degli spazi attrezzati a palestra, accessibili gratuitamente, dove vedi dilettarsi questi energumeni quasi finti. Le donne, con mia somma gioia (sììì! Non mi sono sentita tanto come una dalle forme irregolari), non sono così ben scolpite. Mentre gli uomini passano il tempo a delineare la circonferenza dei bicipiti o a correre sotto il sole, esse si scialano tranquillamente al sole. 
2) non si scambiano effusioni in pubblico! Di coppie ce n'erano tante, ma sia in spiaggia che lungo il boulevard non ho assistito a scambi di affettuosità. La cosa ha lasciato piuttosto interdetta me e felicissimo il mio riservato ingegnere, che nella nostra spudorata (!) Europa biasima i gesti troppo intimi scambiati sotto lo sguardo di estranei (a cominciare dalla tendenza a dover comunicare necessariamente con il contatto fisico della sua fidanzata, europea del sud e pertanto super spudorata). 


Di seguito il link della comunità ebraica di Bologna, in cui si spiega che cos'è lo Shabbat: http://www.comunitadibologna.it/index.php?option=com_content&task=view&id=87

venerdì 26 luglio 2013

Gerusalemme

Ho cercato delle citazioni di autori israeliani che potessero accompagnare le foto scattate a Gerusalemme, ma nessuna riusciva ad esprimere quello che questa città è, che cosa trasmette, la sua atmosfera, le sue tante lingue e i suoi tanti volti giunti da ogni dove per adorare il proprio Dio. 
E' una città unica al mondo, una città che può essere compresa soltanto nel momento in cui la si percorre nei suoi quartieri, nei suoi luoghi di culto, tra le macerie di tempi antichi, in mezzo a popoli così distanti geograficamente, fisicamente e soprattutto culturalmente. 
E' la città cosmopolita per eccellenza. Lo era già ai tempi di Gesù, e lo deve essere necessariamente ora, in questi tempi di cultura globale e di tendenze divisorie pericolose, in cui mangiamo, beviamo, indossiamo, visitiamo, leggiamo e parliamo il mondo dell'Altro, verso il quale però mostriamo diffidenza, timore, fastidio. E quasi mai accoglienza. In Gerusalemme guardiamo noi stessi, il nostro passato mitico e il nostro presente tanto, tanto complesso da gestire. 
Per questa ragione è una città che incanta e disincanta il cittadino del mondo. 

Porta di Giaffa

 Quartiere armeno

 Basilica del Santo Sepolcro

 Pietra dell'Unzione

 Venduta del Muro del Pianto e della Moschea 

 Con la nostra guida nel quartiere ebraico. Non poteva non chiamarsi Abraham

 Una coppia che decide di pregare insieme al Muro del Pianto

Le sfumature dell'ebraismo

 Piscina di Betsabea, dove Gesù guarì il paralitico

Nel giardino della Chiesa di Sant'Anna, il posto che più mi ha emozionato. Qui sorgeva la casa di Maria. 
Io e questa gattina dallo sguardo offuscato ci siamo coccolate. E capite.

mercoledì 24 luglio 2013

I spick Inglish

"Stefano, ho un dubbio...com'è che si dice in inglese ebraico?"
"Hebrew".
"Ehhhhh??? Ma non si dice Ebraic?!!".
O_o

Ora ho capito perché la padrona di casa al mio "how do you say good morning in Ebraic"? ha fatto una faccia interdetta! Poi, evidentemente, ha capito e mi ha risposto cordialmente. In fondo gli italiani sono noti per il loro modo di esprimersi in una lingua straniera, senza porsi il problema che le parole usate siano solo una versione esotica del termine italiano. Mi sono sentita come chi parla in spagnolo aggiungendo semplicemente le S. 
O come Alberto Sordi in Un americano a Roma.



Qualche giorno prima il padrone di casa ha mostrato il mio appartamento a persone interessate ad affittarne uno simile a quello dove noi abitiamo.
E' arrivato con uomo di origine indiana ed un ebreo anziano. Li ho aperti così come ero conciata per casa, ovvero pantaloncini e canottierina. Mentre i tre uomini guardavano curiosi nelle stanze, io ho notato che l'anziano aveva in testa il kippah, il copricapo degli ebrei osservanti. Il primo stupidissimo pensiero che ho avuto è stato: "Oddio, un rabbino!". Allora ho guardato l'uomo, mi sono coperta con le mani e, umilmente, gli ho detto: "I'm sorry, I'm sorry". 
"Don't worry. You are in your house!". Ovvero, sei nella tua casa. Qui siamo in Israele, non rischi una punizione corporale per aver accolto in casa tre uomini vestita discinta. Non sono un rabbino, né tanto meno un imam o il vescovo di Gerusalemme, quindi nessuno ti accuserà di mancanza di rispetto nei confronti di un'autorità religiosa. Keep calm, miss G. Il mio sorriso è il miglior benvenuto che tu potessi ricevere da un ebreo. 


Toda Raba: Grazie

Boker Tov: Good Morning

Laila Tov: Good Night

Shalom: Ciao